lunedì 21 aprile 2014


NABAJYOTISAIKIA
c'è una tribù africana che ha un costume molto bello.
Quando qualcuno fa qualcosa di sbagliato e nocivo, prendono la persona al centro del villaggio, arriva tutta la tribù e lo circonda. Per due giorni, dicono all'uomo, tutte le cose buone che ha fatto.
La tribù crede che ogni essere umano viene al mondo come un bene. Ognuno è desideroso di amore, pace, sicurezza, felicità. Ma a volte, nel perseguimento di queste cose, commettiamo degli errori.
La comunità vede quegli errori come un grido di aiuto. Essi si uniscono per sollevarlo e per ricollegarlo con la sua vera natura, per ricordargli fino a quando non si ricorda pienamente la verità dalla quale era stato temporaneamente disconnesso,

Nabajyotisaikia! Midori
NABAJYOTISAIKIA, è un complimento utilizzato in Sud Africa e significa: "io ti rispetto, ti nutro. Importa a me "in risposta dicono Midori, che è:" così, esisto per te "

martedì 4 marzo 2014

Alex Panagulis


SCENE - MEMORIE


Legato mani e piedi
a un letto di ferro
e le catene
costringono il corpo all'immobilità

Corvi attorno a me
vogliono straziarmi
Sono schiavi dei tiranni
e hanno sembianze umane

Con legni percuotono le piante dei miei piedi
mi spengono sigarette sul corpo
sul mio viso insanguinato
appoggiano le canne delle loro pistole
e urlano senza fine
Mi insultano e gridano minacce

Loro che hanno disertato
chiamano me disertore
Loro che hanno tradito
dicono a me traditore
Loro su cui il Popolo sputerà domani
sputano su di me
Mi chiamano puttana
incapaci di vedere
la forza interiore e la verità
nelle ingiurie e nell'ira di me incatenato
Mi chiamano puttana
e la frusta
lascia segni sul mio corpo
ferite nuove
ferite che si spalancano incredule

Sulla camicia di carne
i rivoli di sangue
cambiano colore
Ma continuano a picchiare
e ogni tanto
con nuove torture cercano
di gonfiare il dolore

Le mani che mi tappavano
il naso e la bocca
le mordevo
Ma adesso
che una coperta mi avvolge la testa
il cielo
scende sui miei occhi
colmo di stelle
E sul mio petto
crollano montagne
sirene allucinanti
fischiano nelle orecchie.

Il corpo sussulta senza speranza
per un po' d'aria
Immerso nel sudore
Per un po' d'aria
Per un po' d'aria
un po' d'aria soltanto...

suoni e risate
insulti miserabili e vili
Ma perché?
Palpano i coglioni dell'Incatenato
Senza avere fretta...

Mi spiegano cosa faranno
senza avere fretta...

Aprono cassetti
ne estraggono aghi
senza avere fretta...

Qualcuno di loro
(come sempre)
mi... consiglia
(recita la parte da buono)
Ma ormai non lo ascolto neanche
e così cominciano

Mi infilano dentro l'uretra un ago
(sottilissimo, di ferro)
Brividi in tutto il corpo
l'altro estremo dell'ago
ora lo riscaldano...

I lamenti
le risate sommesse
Le risate ascoltate
le loro risate...

Senza voce, stanchi, sudati
incapaci di inventarsi altro
Tutti insieme
mi colpiscono gridando...

Una macchina vicino muggisce
e solo una voce umana
s'ascolta nel tumulto
Una radio

Come impazziti mi percuotono
con le mani e con i piedi
Tutti insieme...

Sui muri e sul pavimento
si proiettano fiori di fuoco
Fiamme di un altro mondo
Ballano ritmi sfrenati
tutto gira
e presto si perde...

Mi ritrovo in un'altra stanza
piccolo il cambiamento
le catene mi fanno ancora compagnia
Le facce sfocate
spine d'odio
si piegano verso di me
Cresce il tono delle loro voci

E nuove facce con quelli
Ma tutte uguali le espressioni
E uguali le uniformi
cos'è che si trova
sul risvolto dell'uniforme
qualche antico simbolo?
Di Ippocrate
Hanno dimenticato il giuramento....

Scene di vita
Ombre nere
scene che ho vissuto
Ma quale ricordare per prima?
La memoria dolore
La solitudine?
Dolore anch'essa
Dolore compagno del dolore
È la nostra vita

Dicembre 1971

Alex Panagulis


DELIRIO

Quando ravvivi nel pensiero i morti
non scordare che vissero anche loro
pieni di sogni e di speranze
proprio come i vivi ora

Dalla stessa strada che percorri essi passarono
e andando non pensavano alla tomba
Erano pochi come oggi a meditarla
I più credevano loro scopo la vita
nè mai riuscirono a pensare
che solo il passato è esistenza

Dissiparono il tempo in cui comparvero
vili e incapaci di trovare Dio
e credettero in idoli già eretti
da quanti erano vissuti prima

Quanti avevano creduto di trovare Dio
vestito in forme umane
perchè abbagliati dalla luce
dei pochi che volevano
trovare il balsamo della conoscenza

Quei pochi essi li credettero Dei
ma non seppero avvertire
il dono che lasciavano alla vita

E quei pochi passarono e gli altri
sotto mentite spoglie li ricordano

Esistono quei pochi
e gli altri non lo sanno

I Pochi vengono ma
Non li aspetta nessuno

Come diventa sempre
più difficile l'avanzare

E se tu vuoi trovarti tra quei Pochi
sappi
che diventerai compagno della solitudine
Che da solo parlerai piangerai e ti arrabbierai
Più tardi
piangerai e ti arrabbierai soltanto
Più tardi ancora
penserai solamente e piangerai

Quando sarai laggiù
sappi che dopo
troverai la verità o la pazzia

Forse sono due cose uguali
ma tu spera

Febbraio 1971

Una richiesta di vita

Una richiesta di vita

4 marzo 2014 alle ore 14.39
Ricevo dal carcere di Sulmona copia di una lettera inviata al Papa e vorrei richiamare l'attenzione sul modo intelligentissimo di esprimersi dello scrivente, oltre al contenuto che è di per sè commovente c'è anche una capacità di espressione notevole. Premetto che va tutto il mio rispetto alle vittime dei reati, ma ribadisco che, i reati non si cancellano con altri reati da parte dello Stato.

P { margin-bottom: 0.21cm; }
A SUA SANTITA'
PAPA FRANCESCO
CITTÀ DEL VATICANO

Carissimo Papa Francesco,
siamo i detenuti del carcere di Sulmona.
Con la presente desideriamo esprimerLe dal profondo del nostro cuore, un grazie infinito per aver tenuto in considerazione la nostra preghiera rivoltaLe con la lettera di novembre scorso, e sottoscritta dal Cappellano del carcere Padre Sante Inselvini, sulla disumanità dell'ergastolo e sul bisogno che qualcuno, dall'alto della Sua Carità Cristiana e dei suoi poteri di Capo di Stato, lanciasse un messaggio affinchè si potesse cancellare una pena che uccide ogni speranza e ogni prospettiva di vita futura.
Noi tutti abbiamo ascoltato il Suo messaggio nel giorno del Santo Natale ricevendo gioia nel cuore e un'iniezione di speranza. Una pena inumana, come quella dell'ergastolo, annienta una persona nel corpo e nell'anima. Come può uno Stato Civile, di diritto, come lo è l'Italia, conciliare la Dottrina Cattolica, la Cristianità, professare la Fede del Perdono, ed infliggere allo stesso tempo una sorta di vendetta attraverso l'agonia di una condanna alla lenta morte biologica di un essere vivente?
Ad accompagnare questa lettera c'è un pensiero che noi speriamo essere di suo gradimento.
Con la Fede e la Speranza nel cuore e rinnovandoLe l'invito a venirci a trovare, Le inviamo un pensiero affettuoso e Cristiano essendo l'unico che può raggiungerLa volando libero, perchè non ha mura o sbarre che possano tenerlo prigioniero
Sulmona, 23 febbraio 2014
I detenuti ergastolani ostativi di Sulmona.



domenica 2 marzo 2014

La lettera


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LA LETTERA
Comincia presto la notte negli istituti di pena. Il guardiano di
uomini arriva puntuale a chiudere il blindato verso le 22. Si presenta
con la sua grossa chiave ottonata, tre mandate che hanno un rumore
sordo, forte come un pugno allo stomaco che ti coglie all’improvviso.
E’ la sensazione che la tua libertà non sia più tua, ma nelle loro
mani, e tu inerme non puoi fare nulla, se non subire questo stato di
privazione e di mortificazione.
Un’altra lunga notte attende Roberto.
E’ proprio nella notte che si entra nella dimensione interna della
sofferenza, dei rimorsi, dei rimpianti. E’ nella notte che la mente si
mette in moto e, come in un film, ti trasmette quegli impusli che di
giorno, distratti da altre cose, non vengono colti.
Un maledetto venerdì di alcuni anni prima Roberto aveva deciso di
andare in discoteca con un gruppo di amici della sua età, ragazzi
sballati, pronti alla trasgressione e all’uso di sostanze per rendere
la serata più movimentata. All’epoca aveva solo 22 anni. Oggi stava
per compierne 28 il sabato successivo.
Sei lunghi anni erano trascorsi da quella notte di baldoria che si era
trasformata per lui in una tragedia, in cui aveva privato della vita
un ragazzo della sua età.
La serata era cominciata con parecchi bicchieri di vodka e poi in
discoteca avevano comprato delle pasticche di extasy che, unite ai
superalcolici, ebbero un effetto devastante. Dulcis in fundo, prima di
uscire all’alba dal locale un pusher gli vendette a prezzi stracciati
anche delle dosi di cocaina, le cui analisi farmacologiche, durante il
processo, dimostrarono essere stata tagliata con una potente
anfetamina.
Quando si mise al volante della macchina di papà c’era un mostro, non
un essere umano; un individuo che non era nemmeno in condizione di
dire il suo nome.
Un semaforo rosso non fu nemmeno visto e un ragazzo in bicicletta fu
letteralmente falciato dalla potente autovettura. Un giovane essere
umano che si era alzato presto per andare al lavoro nei campi, mentre
lui tornava da una notte di trasgressione. Due coetanei con vite
diverse, con priorità differenti. Non si rese nemmeno conto
dell’impatto, la sua mente annebbiata e la forte velocità lo confusero
con un cane o un cartone. Era stravolto e continuò la sua corsa verso
casa. Dopo alcune ore un paio d’ore grazie a un paio di testimoni fu
rintracciata  la macchina e i Carabinieri lo andarono ad arrestare tra
lo stupore dei suoi genitori. Il ragazzo era morto sul colpo.
Solo dopo alcuni mesi dall’arresto, Roberto riuscì a realizzare
l’accaduto nel vero senso della parola. La condanna a sette anni e
mezzo per omicidio colposo lo consapevolizzò definitivamente.
Durante la sua detenzione aveva compreso molte cose. Aveva compreso
che la vita alla sbando non aveva alcun senso e cercò, anche grazie
all’aiuto di uno psicologo, di analizzare la sua esistenza passata.
Oggi era un uomo nuovo, consapevole degli errori commessi e
profondamente pentito per tutto quello che aveva causato sia per sé
sia per la sua vittima. Aveva spezzato una giovane vita e aveva
lasciato due genitori con un dolore insostenibile. Il tutto per una
serata di trasgressione e follia.
Erano già due anni che ogni venerdì, dopo le 22, si sedeva sul suo
sgabello e cominciava la lettera da scrivere a quel ragazzo che
avrebbe avuto oggi la sua stessa età. Cominciava sempre con un Caro
Daniele, ma poi si rendeva conto che forse lui on aveva nessun diritto
di chiamarlo “caro” e così iniziava a correggere frasi di pentimento
che alla fine della lettera gli apparivano di circostanza e vuote.
Era troppo il male fatto, forse non esistevano davvero le parole
adeguate. Aveva visto i genitori della vittima il giorno della
sentenza di primo grado e poi l’anno dopo in quello della sentenza
d’appello che ridusse la pena di alcuni anni, in relazione alla
giovane età e all’incensuratezza. La sua agiata famiglia riuscì, non
si sa come, a trovare anche un testimone che sostenne che il ragazzo
aveva attraversato con il semaforo rosso, così alla fine il processo
si chiuse con una condanna a sette anni e mezzo di reclusione.
Gli occhi di quella madre tra le lacrime esprimevano dolore e rabbia,
e ora Roberto sapeva che non poteva di certo biasimarla. La
riconciliazione, se accettata, sarebbe stata una soluzione liberatoria
per il suo io, ora consapevole. Ogni tanto durante la scrittura si
fermava a fissare il muro bianco e si chiedeva se tutto ciò non fosse
una follia:<<Con che coraggio posso scrivere al ragazzo morto e
chiedergli perdono? E perché mi dirigo a lui e non ai suoi familiari?
>> si domandava perplesso.
Ci furono dei momenti in cui lo sconforto giunse a un livello
preoccupante, quasi al limite del suicidio. E quell’avvilimento, non
derivava solo dal fatto di avere distrutto la sua vita e quella dei
suoi genitori, ma il pensiero centrale era quello di avere ucciso un
essere umano che aveva avuto solo la sfortuna di passare davanti a lui
quel maledetto sabato mattina. Nulla aveva senso.
Ora davanti ai suoi occhi non c’era solo la tristezza della cella. Si
trovava solo con se stesso e con quel dolore che non poteva esternare
di giorno. Lo elaborava metabolizzando il rimorso che cresceva in
proporzione al tempo, che passava lentamente. Lo scrivere a Daniele
gli provocava sollievo. Chiedere perdono al ragazzo che aveva ucciso,
aveva un non so che di folle, ma il farlo alleviava le sue pene ed il
suo senso di colpa. La stessa detenzione assumeva un aspetto quasi
tollerabile. Il pentimento era reale come la sua sofferenza, che non
l’abbandonava nemmeno per un giorno. Era un sentimento che veniva dal
profondo, e il suo dolore era infinito.
Quello stato di disperazione quella notte, fu interrotto dalla breve
accensione della luce centrale. Il guardiano di uomini deve passare
ogni ora per la conta, o meglio, per controllare che nessuno compia
l’atto estremo, poiché è nella notte che spesso questo accade. Pochi
istanti gli bastano al suo occhio esperto per vedere che tutto sia a
posto e può così continuare il suo giro per il braccio della sezione.
Così, subito dopo l’interruzione, Roberto continua con i suoi
pensieri, con la lettera sempre dinanzi illuminata dalla luce della
piccola lampadina in dotazione nelle celle singole per leggere o
scrivere.
Pensa al tempo che è scivolato furtivamente dalla sua vita, agli
affetti, alla sua famiglia, al ragazzo che oggi forse avrebbe avuto
una moglie, dei figli…
Con gli occhi umidi sbaglia riga, sbaglia l’ortografia, non importa,
continua a scrivere e finalmente, dopo due anni di tentativi andati a
vuoto, riesce a terminare la lettera da spedire a Daniele. In
quell’atmosfera rarefatta guardò nascere il sole dalle sbarre della
sua cella e finalmente si sentì più leggero per avere terminato ciò
che da due anni aveva tentato instancabilmente senza risultato. Con la
lettera appoggiata sul tavolo chiusa e affrancata, Roberto ascolta in
silenzio il cinguettio  dei passeri, che con le loro melodie
contribuiscono a formare l’insieme invisibile ma palpabile della vita,
la vera vita che scorre lontano.
In fondo avrebbe voluto trasmettere a Daniele il suo rimorso autentico
e ringraziarlo  per avergli dato uno scopo durante i lunghi anni di
detenzione.
La lettera a Daniele era in realtà una lettera a se stesso, una
lettera in cui il percorso di ricostruzione dalle ceneri della sua
vita aveva creato un uomo nuovo. Il mese successivo avrebbe ottenuto
la libertà, grazie al buon comportamento e ai giorni della liberazione
anticipata. Una nuova vita era ad attenderlo fuori del carcere, ma
perché questo potesse avvenire sarebbe stato indispensabile un
confronto finale.
Un mese dopo, alla porta della famiglia di Daniele apparve un ragazzo
che aveva parcheggiato diligentemente la sua bicicletta davanti al
portone. Era Roberto: <<Volevo sapere della lettera…>> disse
emozionatissimo alla signora che lo guardava stupita dall’uscio.
La lettera era stata ricevuta e messa in un cassetto dalla madre del
ragazzo, senza essere stata aperta, in un gesto quasi automatico pieno
di risentimento. Anche il padre lo vide, ma non era intenzionato a
farlo entrare.
<<Come si permette di presentarsi qui da noi proprio oggi!>> esclamò
con le lacrime agli occhi.
Dopo un momento di grande commozione e rabbia dovuto alle implorazioni
del giovane, decisero di farlo entrare.
Era l’anniversario della morte di Daniele e gli diedero cinque minuti,
non uno di più.
La signora andò a prendere la lettera e titubante la consegnò a
Roberto che l’aprì e cominciò a leggerla:

Caro Daniele,
sono il ragazzo che ti ha privato della vita, il pazzo che, sconvolto
dall’alcool e dalle droghe, ti ha travolto mentre andavi a lavorare
con la tua bicicletta alle sei del mattino di quel nefasto sabato di
giugno.
Durante la mia lunga detenzione non c’è stato un giorno in cui non ho
maledetto quel mio modo di vivere, non c’è stato un giorno in cui non
ti ho pensato. In alcuni momenti di sconforto speravo di non
svegliarmi, per non continuare questa mia agonia e pagare in modo
definitivo per il male fatto. Poi decisi di scriverti, anche se eri
morto, e dentro di me sapevo che avresti capito, che avresti compreso
i miei errori di ragazzo viziato e senza valori. La tua invisibile
presenza mi ha dato la forza per sopravvivere e per comprendere, per
trasformarmi nell’uomo che sono oggi.
Non posso pretendere che i tuoi genitori mi perdonino, è troppo il
dolore causato, e se ciò non avverrà saprò comprenderlo. Se la
felicità esiste, è forse il raggiungimento di un equilibrio, ed il mio
l’ho raggiunto grazie a te. Sono un uomo nuovo che vuole dare un senso
alla sua vita, e la tua eterea presenza mi sarà sempre di grande
aiuto. So che eri un ragazzo buono e semplice, un esempio per i
giovani della tua età.
Forse penserai che sono diventato pazzo, che ti sto scrivendo per
liberarmi di questo macigno che ho sul cuore, che ho bisogno di un
alibi per sentirmi bene e che in fondo potrebbe essere un altro
aspetto del mio infinito egoismo. Non so risponderti con certezza,
quello che posso dirti è che Roberto oggi è Daniele, e che la tua
morte mi ha trasformato durante la detenzione in un uomo nuovo, capace
di amare e di comprendere la giusta strada da percorrere. In questi
anni ho sofferto molto, sono stato trattato come il peggiore dei
criminali, ho sopportato in silenzio provocazioni di ogni tipo.
Perdonami, dovunque sei ora, perché questo mio sentimento  è
autentico, e sono convinto che potrai comprendere. Non vale la pena
aggiungere altro, se non meditare seriamente su queste realtà e
pensare a quanti sono ancora in attesa di ricevere un perdono dalle
loro vittime.

Roberto

Terminata la lettura, il padre si alzò e, senza dire una parola,
abbracciò Roberto con gli occhi pieni di lacrime, in un silenzio
immenso saturo di mutua solidarietà. Avevano compreso e tutti erano
riusciti a liberarsi da quell’oppressione che avevano mantenuto sul
cuore per anni. Prima che Roberto fosse uscito, la madre di Daniele
sfiorò la sua guancia e disse con gli occhi lucidi:
<<Addio ragazzo, grazie di avere avuto la forza di venire a casa
nostra, non ce ne rendevamo conto ma ne avevamo molto bisogno anche
noi…>>
Il giovane montò sulla sua bicicletta e sparì all’orizzonte.
Aveva piovuto e stava timidamente formandosi nel cielo un arcobaleno
che si mise in luce proprio nel momento in cui Roberto raggiunse il
semaforo, lo stesso di quella tragica notte.
La luce era rossa e così, mentre una leggera brezza lo avvolse, poté
osservare quel magnifico spettacolo all’orizzonte. Gli parve di vedere
una luce brillante, una nuvola a forma di volto sorridente che
lentamente scorse davanti a lui, per poi scomparire tra i colori
dell’arcobaleno.
Forse era l’invito di Daniele che lo spronava a tornare a vivere, un
segnale…
Ritornare a vivere è come rinascere dall’ombra di un passato che ormai
non conta più,a vendo compreso i propri errori e ritornare semplici
nella felicità delle piccole cose.
E costruire ogni attimo il proprio domani, consapevoli.
Ritornare a vivere e credere nell’amore e nel perdono e sentire che
anche il dolore dell’anima può essere sanato. Non è facile, ma è
possibile.

No al razzismo


Alessandro Giacchi ha pubblicato qualcosa su Aethyric Warriors
NO AL RAZZISMO!!!
****************
Immaginate di essere un imprenditore senza scrupoli. Trovate una terra straniera piena di risorse ideali per il vostro business, abitata da gente autoctona meno civilizzata.
Andate con la forza grazie ad un vostro esercito privato "legalizzato", espropriate quelle terre agli indigeni, li massacrate, li cacciate via, non contenti prendete i bambini indigeni per farli lavorare come schiavi al vostro servizio (come l'estrazione di oro o l'estrazione di Coltan nel Congo). Li mantenente volutamente in un clima di fame e miseria, per giunta ... inquinate in maniera indecente quella terra.

Per evitare problemi sul posto, corrompete e pagate profumatamente alcuni boss locali armati che vi aiuteranno in cambio di soldi. Per essere sicuri, corrompete anche i politici locali, così che gireranno sempre la faccia dall'altra parte alle vostre malefatte e vi lasceranno fare, purchè abbiano le tasche piene.

Succede che un giorno, questi indigeni schiavizzati da SECOLI E SECOLI, non potendo contrastarvi con una sommossa o una rivoluzione (non hanno cibo figuriamoci se tengono armi), decidono di scappare/emigrare. Affrontano un viaggio disperato, dove se sei fortunato arrivi vivo a destinazione... se ti va male muori annegato in mezzo al mare.
I "fortunati" arrivano a destinazione, vengono alla vostra porta a condividere solo un pezzetto della ricchezza che gli avete rubato finora. E voi gli rispondete: "vattene pezzente!!! fuori da casa mia!! è illegale la tua presenza nella MIA TERRA!! Le leggi parlano chiaro!!"

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In sintesi questo è quello che avviene ogni volta che respingiamo, insultiamo, ci indigniamo agli sbarchi di emigranti in Italia.

Sono colpevole


Sono colpevole

30 novembre 2010 alle ore 13.28
Quest'anno non adornerò alberi di Natale, non addobberò finestre con luci colorate, non allestirò presepi, non farò regali e non manderò fiori a nessuno.
Quest'anno voglio andare davanti a un giudice e dirgli:
"Signor Giudice,
mi sono macchiata di tanti reati,
sono colpevole di aver regalato giocattoli a mio figlio e ad altri bambini, non pensando che, mentre mi beavo soddisfatta nel vedere il sorriso e le manine che affannate aprivano il pacco, c'erano e ci sono bambini costretti a costruire quei giocattoli in cambio di percosse, minacce, sevizie e abusi. E troppi bambini morivano e non sorridevano più per quell'unico sorriso.
Sono colpevole di aver festeggiato compleanni con palloncini colorati e pasticcini mentre altri bambini conoscevano soltanto bombe e campi minati.
Sono colpevole perchè in cambio dei miei vizi e cose superflue troppa gente muore.
Sono colpevole per aver giudicato, condannato, sono colpevole della mia indifferenza di fronte alle  sofferenze del mondo.
Sono colpevole di non aver gridato, manifestato, scritto contro questo sistema abominevole che non tiene conto delle vite umane.
Sono colpevole perchè un giorno, mentre seguivo con tante persone una madonna di gesso, una donna  in carne ed ossa, che abita vicino a me, sola, abbandonata dalla propria famiglia e invalida cadeva dalla sedia e doveva attendere il mio ritorno per potersi rialzare.
Sono colpevole di tossicodipendenza e spaccio: fumo e offro sigarette a chi in quel momento non ne ha.
Sono colpevole perchè accetto che il mio benessere sia costruito sulle vite altrui.
Ed è per questo Signor Giudice che voglio essere condannata all'ergastolo, quello più duro, quello che uccide, quello che non da speranza, quello dei dimenticati.
Chiedo però di poter comunicare coi detenuti perchè loro, che hanno commesso meno reati di me, avrebbero tante cose da insegnarmi e mi aiuterebbero sicuramente a migliorarmi.
Vorrei però, visto che buona parte dell'umanità è colpevole quanto me, che almeno per un giorno tutti quanti gli uomini stiano con me dentro una vasca di cemento, chiusa da sbarre senza luce del sole, nell'umidità e nel freddo del corpo e dell'anima.
Cosa pensa Signor Giudice, riusciremo a costruire una prigione così grande?
No vero? Allora la prego, per par conditio, o galera per tutti o galera per nessuno, ci sono altri modi per rispondere alle colpe che ogni individuo si porta dentro.
Buon Natale Signor Giudice.